UMBERTO MARRONE

Maggio 10, 2020

Un gruppo in Pandemia

covid19 pandemia psicoterapia gruppi

Lascio la macchina a qualche minuto di strada a piedi dallo studio, per evitare di cercare parcheggio a quell’ora, che risulta impossibile. Una passeggiata ricreativa dunque, prima di arrivare. Entro: per questa occasione e in questo tempo lo studio sarà lo “spazio del gruppo”.
Giunge l’orario. Si comincia.

Il primo giorno ci si accoglie in punta di piedi, in un microcosmo tutto da scoprire e nel quale è possibile esperire sin da subito un’intimità forte. Per accostarsi ad essa si può sentire il bisogno e il desiderio di “togliendosi i sandali”.
In questo spazio “sacro” è possibile sperimentare i propri appannamenti, legati a una dose di vaccino. Stare nella frustrazione, con l’impossibilità di muoversi in avanti e con il rischio di affondare sempre di più se non ci si riesce a fermare. Come nelle sabbie mobili, in cui un aiuto, un braccio a cui aggrapparsi può essere offerto sicuramente dal proprio terapeuta, e forse anche del gruppo.
Ci si ritrova nel “bagno di casa”, a cercar di capire fino a che punto sia possibile concedersi di desiderare ciò che davvero si desidera. Ci si può sentire spesso bloccati, fermi, impettiti, incompiuti. Ma le variabili nuove nella propria esperienza di vita diventano sempre più accessibili, nonostante il rischio che tutto scivoli addosso.
Nuovi ingressi, l’estraneità dei volti e delle espressioni. L’uso continuativo della mascherina. Al di sotto di questo artefatto cosa può celarsi?

Qualcosa che può aver bisogno di essere svelato. Ma passo dopo passo.
Per ora basta il gesto simbolico di abbassare quella mascherina, e solo per un momento, per svelare qualcosa di sé, ed evitare di assistere ad un’“operazione a cuore aperto” la prima volta.
Meglio non contagiarsi vicendevolmente della rispettiva sofferenza, dei rispettivi sintomi e virus.
Un gruppo vissuto come “perfezionatore del lavoro terapeutico individuale”, come una sorgente, a partire dalla quale un nuovo ingresso o un’esperienza nuova possono diventare stancanti come stimolanti. Alla ricerca di un novello accomodamento.

Ma l’accoglienza delle situazioni dolorose, della comprensione e di una coccola sono caratteristiche di questo gruppo. Le emozioni tetre e spaventanti, non affrontabili solo attraverso lo sballo di una notte insonne di fronte ai videogiochi o a una canna alle 5 di mattina, possono essere in esso comprese e, al di là della stanza di terapia, verso spazi transgenerazionali. Ma qui è ancora possibile rintracciare lo sguardo del proprio terapeuta individuale, come conduttore di conforto e di rinforzo, di fiducia e intimità.
Si percepisce un’aria differente quando si trattano questioni apparentemente più leggere, come gli sport e la loro importanza, rispetto a quando si parla delle nuvole nere che si addensano nella mente nel momento in cui si riceve una diagnosi psichiatrica.

Ognuno può acquisire una propria motivazione nell’approfondire le dinamiche personali e i punti nevralgici individuali, ivi comprese le situazioni profondamente angoscianti e destabilizzanti, a cui si legano anche le numerose assenze. I “battibecchi” e gli accavallamenti si fanno spazio quando si cerca di definire la propria identità, chi siamo e cosa desideriamo.

Sottogruppi in fase di amalgamazione.

Il momento topico dell’autopresentazione, autodefinizione e contenimento dell’angoscia della novità, sembrano tentativi di semplificare la complessità che caratterizza il proprio sé, che, una volta ascritto a categorie facilmente etichettabili, diventa di più facile gestione e presentazione. La rabbia del terapeuta si fa carico e portavoce dello sforzo di prendere in carico questa complessità, che invece attraverso la stereotipizzazione viene inevitabilmente squalificata. Sembrano “Identità di passaggio”.

Lo yoga come la partecipazione al gruppo possono sembrare degli obiettivi a cui tendere, ma rispetto ai quali non ci si sente ancora pronti. Si percepiscono una buona capacità di pensiero e di approfondimento, accanto alla difficoltà di entrare dentro le proprie questioni su un piano emotivo. Una buona consapevolezza e volontà di comprensione, che forse costituiscono un primo passo verso il diventare “carne o pesce”. Le relazioni dicotomiche interne alla coppia genitoriale, la serializzazione, la scissione delle relazioni etero dalle relazioni gay, il noi e il voi, pazienti e terapeuti, giovani e boemer.

Un gruppo di 8 persone, in cui quando si è in coppia sembra più semplice lasciarsi conoscere ed aprirsi alla condivisione. I drammi di coppia come drammi personali, la negazione dell’essere amante piuttosto che fidanzato. Minimizzare gli effetti delle proprie azioni sugli altri.
Cibo compreso all’interno di un guscio protettivo che, da quando non c’è più, sta causando il suo “andar a male”; bisogni di contenimento e accudimento, all’interno di relazioni rassicuranti e “scaldanti”. Presenza dell’osservatore travisata o dimenticata.

Complimenti per i nuovi tagli di capelli, buona affettività e vicinanza. Onere di “parlare sempre”, di “accudire”, di dare un senso alla propria rabbia. La razionalizzazione del “fastidio” per le assenze e per la mancanza di disponibilità da parte degli altri nel mettersi in gioco si lega al dover esser sempre presente, per “fare il bravo bambino/a”.
Il gruppo mette in scacco dal modo ideale di osservare e di presentare se stessi attraverso una rappresentazione lontana dalle difficoltà quotidiane, soprattutto grazie alla tipologia del setting, “sociale” e poco “privato”. Il chiudersi nella propria stanza e vivere il proprio mondo virtuale fa in modo che coesistano la cacca e la luna. Ma la cacca bussò e cercò di aprire una porta.
La presenza fisica in gruppo può conferire un senso di piacevolezza e di ricchezza, in uno spazio in cui c’è tanto da dire e da condividere, tra conoscenze nuove e relazioni vecchie. E prima magari che questo momento passi e ci si ritrovi in due o in tre.

Le “amiche eteree”, il giudizio e la rabbia quasi repressi: sensi di colpa.

Le nuove “coppie” portano a una riconfigurazione gruppale, a un incremento della circolarità tra pazienti e conduttori, verso dinamiche più flessibili e coppie intercambiabili. In esse i “soliti drammi” consistono nella difficoltà di esplicitare i propri pensieri e di spiegarsi al cento per cento, e si associano alla circostanza per cui il gruppo sta ancora attraversando i suoi primi 9 mesi, tipici della fase di fondazione. E per questo è alla ricerca di un proprio lessico specifico e di una peculiare capacità di comunicazione.
Una madre sullo sfondo, l’irraggiungibilità del materno si àncora al lavoro in corso sul paterno. In uno spazio in cui si può imparare a portare anche molta rabbia, in particolare contrapposizione con il maschile, ma con un contatto visivo più lungo con il femminile. Con la possibilità di accedere sempre un po’ di più alle questioni emotive. Noia e sonno.
Starnuti ripetuti che fanno “connettere” tutti, volgendo gli sguardi in quella direzione e augurando una buona “salute”. Sintesi e simbolo del bisogno di tirar fuori qualcosa da sé, farsi vedere e permettersi di essere riconosciuti.
Gruppo come luogo in cui apprendere qualcosa di utile per il “lavoro” con se stessi nel futuro, o attraverso cui scovare strategie differenti da utilizzare rispetto al passato.
Seguire le “istruzioni” ricevute, viversi la propria partecipazione a questo spazio attraverso lo stare sulle questioni degli altri, in modo emotivamente connesso. Protendersi in avanti nel parlare degli altri, con un eloquio più scorrevole, un tono di voce più fermo e un generale atteggiamento in contrapposizione rispetto al bisogno di contorcersi le mani e di graffiarsi le unghie quando si parla di sé. Sono in corso lavori preziosi di integrazione, per imparare a lasciarsi “vedere”, non tenendo più in ombra gli aspetti più intimi di sé, come quello sentimentale. E meno male che c’è il proprio terapeuta, di cui ci si può fidare.

Gruppo come condominio che funziona bene, con i suoi perenni “lavori in corso”. Qui è possibile ridere insieme e viversi il piacere dello stare e del parlare con gli altri, pur trattando temi importanti. Una genuina curiosità, nonostante il bisogno di aiuto farmacologico, sempre in propensione verso nuovi passi in avanti, nel rispetto dei ritmi differenti.
“Accidia”, difficoltà a lasciarsi coinvolgere, sentirsi alle strette quando si viene messi in gioco. Annullamento di ogni possibilità di scelta o di azione e come conseguenza la sofferenza, il non essere ancora né carne né pesce. Ci si può essere anche stufati di tutto questo però, e sentire il bisogno di evolvere verso nuovi passi.
Pensiero suicidario, esser stati spacciatori: eventi mai raccontati nelle terapie individuali durate diversi anni: questo gruppo funziona proprio bene! Forse è il momento di approfondire il funzionamento e procedere verso l’essere.
E allora: moria di partecipanti, ritardi, prosecuzione delle seduta oltre il tempo stabilito, set e setting che stentano ad acquisire confini stabili: quanto è difficile questo lavoro!
Ma i confini porosi permettono a diversi partecipanti di continuare a lavorare alacremente sui temi emersi in seduta e portare con sé al di fuori di questo contesto ciò da cui sono stati “toccati”. In questo modo la seduta di gruppo acquisisce i contorni di un momento fulcrale, in cui ci si può anche sentire prede in mezzo a tanti squali.
Ciò arricchisce tantissimo, ma è necessario anche difendersi, come fumando canne e partecipando “fino a un certo punto”. Esser difesi e circospetti ce lo si può permettere, in modo che il gruppo possa rappresentare un dovere, un piacere o una facciata di “sobrietà”.

E qui ci si può sentire soli anche nel condurre.

Esporsi, mettersi in gioco, creare aspettative negli altri e assumersi il rischio di fallire. Meglio forse per ora giocare qualcosa di sé, vedere che succede, e poi rintanarsi, facendo un passo indietro.
La connessione emotiva si manifesta attraverso il compleanno di un nonno, la composizione di un video e le lacrime in famiglia. Gli altri possono essere molto precisi nell’intuire i temi portati e nel creare connessioni. La vicinanza in gruppo diventa così molto fruttuosa. Per tutti.

Un ictus che priva della “possibilità di lasciarsi conoscere”, la paura che un intervento verbale del conduttore limiti l’effetto placebo creato dalla propria mente e con esso la possibilità di “goderne”. Piramidi mentali che, qualora dovessero crollare, farebbero precipitare in un terrore incontrollabile. Potere di controllo e curativo della mente. Ma i partecipanti si sentono più uniti e coinvolti tra loro e in un maggiore contatto reciproco.
Bussare alla porta, entrare in punta di piedi. Non essere come la propria madre, in quanto a volte può risultare necessario difendersi dal dolore della sofferenza psichica, starci e accettare la mancanza di qualunque possibilità di lenirlo. Questo causa un incrollabile senso di impotenza e di inefficacia. Ma il timore di essere come la propria madre si contrappone alla fiducia nei confronti dell’intero gruppo, inteso come istanza curante.
L’araba fenice tatuata su un braccio porta con sé il simbolo della capacità di superare ogni ostacolo e di rinascere dopo ogni tragedia della vita, fino a riuscire ad entrare senza bussare.

Agli sgoccioli del percorso universitario le bocciature rallentanti possono anche rappresentare il desiderio di autoaffermazione, di non essere per forza i “bravi ragazzi” che tutti si aspettano, e diventare consapevoli del proprio desiderio di mettersi i bastoni fra le ruote. Quando le proprie difficoltà, quelle con cui si è cresciuti, sono così forti, può farsi strada il timore di assumersi la responsabilità della propria indipendenza e della propria autonomia. La sensazione di inadeguatezza rispetto alla partecipazione al gruppo, il sentirsi in colpa quando non ci si presenta, contorcendosi le mani mentre si parla dei propri vissuti, mettono in scena una richiesta di aiuto, il proprio bisogno di contenimento e di sentirsi spinti dal gruppo.
La difficoltà di ottenere appelli straordinari, atenei che non ascoltano gli studenti, la tendenza a sminuire i propri risultati, le prime opportunità di vivere un po’ di aggressività in gruppo durante una seduta in cui sono presenti solo i 3 ragazzi maschi.

Supereroi che predispongono alla scelta tra il bene e il male. Intrattenersi nella propria antro-stanza, con la difficoltà di attenersi alle questioni della terra e una maggiore propensione al dedicarsi a faccende più “celesti”, supereroiche. Ma questo può anche portare a chiudersi in se stessi, a non superare i propri blocchi o al pericolo di sentirsi superiori rispetto agli altri.
Anche il gruppo reca con sé, così, le proprie dimensioni di forza e di pericolo, di responsabilità nel proprio sentirsi meno soli: un luogo per sentirsi meno alieni e più umani.

Per farsi conoscere, per imparare a chiedere aiuto in modo comprensibile per l’altro, astenendosi dal rimanere fissi nell’unica strada disponibile alla propria mente. I ripetuti ritardi, il godersi un po’ di più il proprio tempo, rompendo qualche schema, confondendo la strada dello studio con quella della casa della fidanzata: un mancato desiderio di diventar grandi, in attesa messianica che qualcuno venga a salvarci e a portarci fuori da quest’impasse.
I rumori e le voci che vengono dalla strada sembrano rappresentare l’esterno che protrude all’interno, i confini del setting che paiono meno rigidi. A volte l’interno sembra voglia venir fuori più del dovuto, attraverso troppe parole.
Per la prima volta una rabbia riconosciuta, verbalizzata e sperimentata aleggia sui partecipanti. Saltuari conflitti tra punti di vista differenti, vissuti di commozione e di empatia. La competenza sul piano cognitivo, le giuste strategie per reperire informazioni per l’intervista, la difficoltà nel riconoscere a se stessi la bontà di queste strategie: una razionalità che a volte tende al perfezionismo.

Ma se il setting fa sentire sufficientemente sicuri diventa possibile non astenersi dall’esser presenti e accettare le quote di paura del giudizio in esso comprese. Si tratta di un’occasione di socializzazione tra pari e di ricapitolazione correttiva attraverso le figure genitoriali rappresentate dai terapeuti, con la presenza di un osservatore silente, e forse per questo frustrante, che si pone in una posizione intermedia tra le altre “due”.
La piattaforma scomoda e antipatica di un sogno, su cui è possibile salire un po’ su per provare a rimanerci in modo sufficientemente stabile, con le proprie scarpe e i propri vestiti, la propria rabbia e la propria frustrazione, la propria fiducia e la propria speranza. Alla fine, forse, se ne può uscire più puliti e profumati.
Un guasto al pc, la preoccupazione di non riuscire a portare a termine i propri impegni se le cose non stanno al loro posto così come ci si aspetta. Anche il gruppo è “a posto” in quanto è stato contenitore della propria rabbia e veicolo delle proprie lacrime.

Angoscia legata al conoscere dal vivo la persona amata dopo anni di rapporto on-line. Aspetti meno “selvatici”; paura del parere dei genitori e della rabbia per le loro sicure rimostranze. Un gruppo “tranquillo”, in antitesi con gli incontri familiari di questi anni.

Allargamento della rappresentazione terapeutica da una figura singola al gruppo, superando il confine di questo “livello evolutivo” e riconoscendo il confronto con le figure genitoriali. Bisogno di controllo da parte loro, che può far sentire i figli sia invasi che sicuri, all’interno di una familiarità che porta con sé elementi di esogamia, come l’aria di cambiamento, i nuovi modi di relazionarsi e di ascoltare l’altro, l’ironia, l’accresciuta flessibilità di pensiero e di sensazione di agio, la co-costruzione tra pari. Attraverso l’accordo e la contrattazione per definire l’orario della prossima seduta, i partecipanti diventano maggiormente responsabili del setting.
Allargare le prospettive, togliendo i paraocchi e guardandosi così meglio intorno, con occhi più liberi e proiettati verso l’orizzonte. Confini e prospettive del gruppo più ampie, che si aprono verso il Kenia, l’Olanda e gli Usa. Differenti stili genitoriali, che attraverso il confronto tra pari si aprono anche loro a prospettive nuove, alla possibilità di osservarsi e di osservare l’altro da me.

Desiderio e paura: due componenti del nuovo, che ancora vengono sovente separate. Come le due pareti del Mar Rosso innalzate dal bastone di Mosè, hanno bisogno di esser meglio comprese all’interno del letto di uno stesso mare. Rispecchiamenti e nuove opportunità, alle soglie dell’età adulta, per procedere verso nuove terre promesse.
Il controllo genitoriale può dare sicurezza ma, allo stesso tempo, non permette di rispondere alla domanda: “Io cosa voglio fare?”, all’interno di una prospettiva di rispecchiamento anche sul piano lavorativo.
Senso del gusto: cibo da ingurgitare ma che può anche bloccarsi in gola o risultare immangiabile. Blocchi: del cibo in gola, dei pesi sul petto o dell’ansia. Aprirsi alla conoscenza di nuovi gusti, smettendo di assaggiare sempre e solo gli stessi: “cosa voglio fare io?”. Contrapposto a: “cosa vogliono i miei genitori?”.
Il gruppo a volte rimanda l’insostenibilità delle proprie tesi e propone alternative: rispecchiamento e differenziazione. Questioni di potere, di onnipotenza (“Io mangio questo e nient’altro”), o di ansia da prestazione su un piano personale (paura di affogare) e sociale (timore di non riuscire a consumare cibo in presenza di altre persone). Chiusura al mondo e al gruppo: paura e ansia da prestazione.
Un materno rassicurante rispetto alla possibilità di partecipare al gruppo anche rimanendo completamente in silenzio. Sbobinature delle lezioni dell’esame e delle storie di vita dei partecipanti portate in seduta, in un’inversione dei processi che non si muovono più dall’azione al pensiero, come nei bambini, ma dal pensiero all’azione, come nei dolci portati in seduta.

Autovalutazione positiva e consapevolezza dell’impegno profuso: una nuova tipologia di soddisfazione che può fare anche a meno del riconoscimento legato alla valutazione del professore. Ritorni dopo diverse assenze, che si rivelano “presenti” anche durante l’assenza, enumerando le motivazioni che di volta in volta hanno impedito la partecipazione. Inizio di nuovi percorsi, una frequenza universitaria passata in presenza dopo un anno di on-line: le certificazioni attestanti le proprie difficoltà ancora non consegnate, poiché quando si parla di argomenti che interessano è possibile che i problemi si riducano.

Il desiderio di incontrare il proprio amore che si scontra con piani poco realistici, dato che in tutte le relazioni passate ci si è sempre “dovuti muovere” in prima persona per raggiungere il proprio partner, mentre ora ci si può anche concedere di sentirsi stanchi di doverlo fare sempre e per forza. Passaporto relazionale simbolo di autonomia. Quando la cosa da fare interessa davvero si possono portare a termine tutti gli impegni nei tempi previsti: vaccino, green pass e passaporto. E di qui anche la frustrazione in quanto se “burocraticamente” pronti non è detto che poi si riesca a partire. Così come l’università, da affrontare un passo alla volta, con continua aderenza al piano di realtà.
Partecipanti “co-terapeuti”, con interventi brevi, connessi emotivamente con l’altro e privi di una riflessione orientata su di sé; passaggio dal pensiero all’azione che si traduce nel condividere la colazione, in cui qualcuno assaggia un pezzettino, qualcun altro chiacchiera e ciascuno cerca di abbandonare alcune posizioni e ruoli consueti.
Controllo e timore di perderlo, con annesse rabbia e paura. Muoversi un po’ di più sulla propria sedia, essere più attivi e disvelarsi un po’. Paura del giudizio e di perdere la buona immagine che le figure genitoriali hanno di sé; timore della propria rabbia, di spaccare matite e mestoli, sempre però in modo controllato. Timore di diventare violenti. Bisogno di nascondersi dietro il bavero della tuta quando si parla della relazione con la propria madre. O “smascherarsi” per rivelare il proprio viso di bambino/a.
Immediata possibilità di decompressione, con minore preoccupazione per la partecipazione a un setting a volte destabilizzante, che porta alla perdita di controllo, che può causare la rottura di una finestra, che forse però è stata rotta solo per gioco.

Buon clima di gruppo, un 29 all’esonero che è normale che sia andata così. Capacità emergente di connettersi al discorso dell’altro, riportando un proprio vissuto, in modo diverso e più coerente con il dispositivo gruppale rispetto al passato.

Assenza per aver preso coscienza di essere l’unico partecipante a ricoprire il ruolo di fratello “problematico” all’interno della fratria, scomodità rispetto agli altri partecipanti, che provano rabbia per i fratelli più coccolati e “custoditi” dalle famiglie. Beneficio anche nell’essere l’unico/a paziente del gruppo in compagnia della conduzione.
Agitazione psicomotoria, bisogni insoddisfatti (non detti). Portare le proprie preoccupazioni in seduta, ma disponibilità a lasciare l’incontro qualora i presenti lo desiderino. Tosse notturna, autosabotaggio, elaborazione razionale e insight castrati. Forse ci si può concedere anche di non portare a termine il proprio proposito di comprensione razionale e di condividere le proprie questioni su un piano verbale, con la frustrazione che ne consegue.
Passi evolutivi, bisogno di sostegno da parte delle figure genitoriali rappresentate dai conduttori. Alcuni, per riaffrontare la “fratria” giudicante del gruppo, hanno bisogno di uno spazio di intimità con il materno. Altri, per aprire alcuni discorsi con i propri genitori e con il proprio padre, hanno instillato nella mente dei conduttori la necessità di farsi sostenere da entrambi.

Buona capacità di supporto alla conduzione, in contrapposizione o compensazione rispetto alle sedute in cui ci si è concessi di lasciare che il gruppo si prenda cura di noi. Gratitudine per essersi sentiti accolti, essersi sentiti meglio, aver cambiato posizione, arricchendo la propria esperienza terapeutica e contribuendo in modo attivo al sostegno gruppale.

Lutto. Un partecipante lascerà presto il gruppo, così come l’osservatore, che nelle sue ultime sedute potrà prender parola, in linea con quanto emerso dai partecipanti rispetto alla ricerca di nuove strategie. La verbalizzazione dei suoi passaggi può forse rappresentare un tramite di rispecchiamento utile anche ai partecipanti.
Difficoltà di mostrarsi vulnerabile, strenua resistenza alle lacrime, minore necessità di continuare a mascherarsi e sempre meno impensabilità del gesto di abbassare un po’ di più la propria “mascherina”. Difesa legale attraverso cui il paterno soddisfa il proprio bisogno di controllo sulle emozioni e sulla vita di tutta la famiglia. Prendere le “difese” per sublimare gli impulsi di rabbia, e necessità di essere “difensore” della propria figlia.
Tesi piatta, difficile da “riempire”, così come lo stomaco. Bisognosa di scientificità e la cui compilazione è caratterizzata da scarsa libertà. Sensazione che una partenza possa aiutare nel proprio processo di individuazione. Cibo sconosciuto e spaventante, alieno dal consueto controllo e dalla condivisione genitoriale. Ciò mette paura, ma rappresenta anche una simbolizzazione delle proprie scelte personali che, così come negli articoli, avranno più spazio per esser riconosciute e vissute a pieno.
Trame che si sovrappongono tra i partecipanti: paura e desiderio di sperimentare cose nuove, viaggio negli USA, partenza in Erasmus, l’osservatore che condivide la chiusura della propria esperienza in gruppo come psicoterapeuta in formazione.

Per la prima volta l’osservatore verbalizza qualcosa, condividendo il proprio desiderio di evoluzione, in linea con i timori e le speranze relativi alla conclusione di percorsi dei partecipanti.
Chiusure che diventano anche aperture verso nuovi tragitti e prospettive.
Nuovi modi di stare in gruppo, meno “spaventati”, con la possibilità di condividere il come ci si senta, senza l’esigenza di dover prendere per forza parola. Sentirsi un po’ più protetti: “piattaforme” associabili alle nuove prospettive di rinnovamento e crescita; viaggio attraverso le dinamiche gruppali che pare ora possa avanzare. O iniziare davvero.
Nuove fasi e nuove piattaforme, suggellate anche da nuovi look, sfoggiati con fierezza e convinzione.
“Mamme cuscinetto” che invitano alla relazione con gli altri: relazione con un nuovo materno e una nuova fratria che non si pongono più solo come intermediari, ma che si mostrano in grado di prendere una propria posizione, incentivando la spinta a definire se stessi e a prendere le proprie decisioni in modo più convinto rispetto al passato. Portando le proprie questioni e senza seguire pedissequamente le indicazioni ricevute da altri.
Non detti, silenzi, partenze poco chiare e alienanti.
Nuove significazioni, che si generano e si rigenerano attraverso gli ingressi in nuovi spazi.
Nuove esperienze di vita e di crescita.

Nuovi arrivi prospettati, accanto a nuove partenze.

Non te ne andare!
Altra vita, altri spazi chiamano, ma la vita e lo spazio del gruppo rimarranno sempre.
Nel cuore.
Nella vita.
Nella professione.
Un saluto, una stretta di mano, un abbraccio.
Fisico e virtuale.
In proiezione verso il futuro.
Evoluzione.